Covid e disabilità “non collaboranti” tra “sommerso” e isolamento

Covid e disabilità “non collaboranti” tra “sommerso” e isolamento

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Un vuoto da colmare Le famiglie domandano da tempo percorsi diagnostici e di presa in carico adeguati per chi abbia una disabilità intellettiva o un autismo incompatibili con l’esecuzione di esami invasivi o ricoveri ospedalieri senza caregiver. Ad oggi, soluzione non c’è. E mentre aumentano i casi, sale la preoccupazione

ROMA. Come può sottoporsi a tampone una persona con una disabilità intellettiva tale da renderla “non collaborante”? Come si può praticare il prelievo naso faringeo a un ragazzo che non voglia saperne di star fermo, aprire la bocca e lasciare che qualcuno anche solo lo sfiori? La domanda è lecita, a oltre sei mesi dall’inizio della pandemia. La risposta, però, ancora non c’è. Non c’è nel Lazio, almeno, ma non ci risulta esista neanche nel resto d’Italia. Anche all’ospedale San Camillo, dove il progetto “Tobia” assicura esami e prestazioni tramite un “Team operativo per bisogni individuali assistenziali”, sono in attesa di indicazioni in merito. A una mamma che telefona chiedendo se sia possibile, presso di loro, eseguire un tampone per il figlio con grave disabilità, l’operatrice risponde che “per ora eseguiamo solo sierologici” e ammette che “il problema esiste e da tempo stiamo cercando di affrontarlo, ma dalla Regione non abbiamo ancora ricevuto indicazioni”. Fa notare, l’operatrice, che i ragazzi seguiti dal team “hanno bisogno di sedazione anche per semplici interventi o cure odontoiatriche, ma perfino per tac ed ecografie. Ma per la sedazione è necessario entrare in sala operatoria e per entrare in sala operatoria serve un tampone, che appunto è impossibile praticare ai nostri ragazzi: troppo invasivo, troppo traumatico”. E allora? “Allora per il momento abbiamo ottenuto che sia sufficiente il sierologico, che riusciamo ad eseguire a tutti coloro che debbano accedere alle nostre prestazioni”.

Il tampone però è un esame diverso, che garantisce uno screening più preciso e che sopratutto è sempre più frequentemente prescritto in presenza di sospetti, soprattutto è obbligatorio per essere riammessi a scuola dopo esposizione a contagio o in presenza di sintomi. Si rende quindi sempre più necessario e urgente fare in modo che tutti, anche coloro che hanno maggiori difficoltà, possano accedere a questo esame. Come? Per ora, un percorso non esiste. “Secondo la Regione, il tampone va eseguito in drive in – riferisce l’operatrice del progetto Tobia – ma sappiamo benissimo come questo non sia possibile per i nostri ragazzi. E il nostro dirigente lo ha fatto presente alla Regione, chiedendo di trovare al più presto una soluzione”.

Quale questa soluzione possa essere, lo hanno già suggerito la Consulta H di Roma e un gruppo di associazioni di Roma e provincia (Community Sorelle di Cuore, Oltre lo Sguardo Onlus, Hermes Aps, Nuove Frontiere, I Guerrieri SPQR) al presidente Zingaretti e all’assessore D’Amato: si potrebbero estendere i test salivari non invasivi, introdotto all’interno delle scuole materne, elementari e medie, anche al di fuori del contesto scolastico, proponendoli a tutti i pazienti non collaboranti. E qualora anche questo esame si rivelasse inadeguato – perché non tutti questi pazienti sono in grado di eseguire quanto richiesto – si potrebbe praticare il tampone in sedazione blanda e possibilmente a domicilio. “Certo, il problema della sedazione ci riporta dentro un circolo vizioso – ci spiega una mamma caregiver dell’associazione Oltre lo sguardo – Per fare la sedazione, ci chiedono l’esame del sangue, a sua volta invasivo. Ma se esistesse il promesso e annunciato fascicolo sanitario elettronico, questo non occorrerebbe”.

Certo è che “più passa il tempo, più mi domando cosa farò semmai mio figlio, che finora ha eseguito solo test sierologici, dovesse sottoporsi a tampone: finora non mi pare che esista per lui alcuna possibilità di eseguirlo”. Non solo: “Se cotraesse il virus e dovesse essere ricoverato, non esiste tuttora un percorso che permetta al caregiver di stare insieme a lui in ospedale. E lo stesso, faccio notare, vale per i bambini, anche piccolissimi. Solo al San Camillo e al San Giovanni, qui a Roma, mi risulta che il paziente con grave disabilità possa essere accompagnato e assistito dal caregiver, ma solo in presenza di determinate condizioni e a insindacabile giudizio di caposala e primario. Penso che a mio figlio, che non è in grado di manifestare le sue emozioni e il suo disappunto, questo non sarebbe permesso. Ma davvero pensano che io, dopo aver scelto di dedicare la vita a mio figlio, potrei abbandonarlo fuori dal pronto soccorso? Piuttosto mi chiuderei in casa con lui e probabilmente moriremmo insieme”.

In attesa quindi che dalle regioni arrivi una risposta certa e adeguata alle necessità sanitarie e delle persone con gravi disabilità in merito al Covid19, “io penso che tante famiglie, pur di non sottoporre il figlio al trauma del tampone e di un eventuale drammatico ricovero, si chiudano in casa, ai primi sintomi”. Con due inevitabili e drammatiche conseguenze: da un lato , con tutto ciò che ne consegue: da un lato la presenza di un “sommerso” che non rientra nel conteggio dei dati e che rischia di diffondere il virus, nel momento in cui non entra in un percorso di diagnosi e presa in carico; dall’altro una crescita dell’isolamento delle famiglie di persone con gravi disabilità, dovuto alla paura di non saper gestire un sospetto o un eventuale contagio, con un netto passo indietro in termini di inclusione sociale.

Fonte: Redattore Sociale.it

07/10/2020