Inaccettabile selezionare le persone da curare in base a criteri non clinici

Inaccettabile selezionare le persone da curare in base a criteri non clinici

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Niente rianimazione cardiopolmonare se mancano letti in terapia intensiva, «per chi ha più di 85 anni o per chi ha più di 75 anni e co-morbilità cardiache, epatiche o renali». Se poi i letti ci sono, ma le risorse sono scarse, i criteri sono più stringenti e tra le situazioni “che escludono” vi è anche la “demenza grave”, che non è però una co-rmorbilità a rischio. Lo si legge in un inquietante documento dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva, che riprende analoghe indicazioni fornite in primavera anche in Italia e condannate ad ogni livello.

SVIZZERA. Non può non suscitare a dir poco inquietudine il documento reso noto nei giorni scorsi dal quotidiano «La Stampa», elaborato dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva, ufficialmente non ancora adottato, pur essendo stato elaborato sin dalla fine di marzo scorso, agli inizi della pandemia.
Il titolo parla da sé: Triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse, ove naturalmente il termine francese triage (letteralmente “cernita”, “smistamento”) identifica quel sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico. In questo caso si applica appunto a pazienti che devono essere trattati in terapia intensiva.
Ebbene, quel documento mette nero su bianco una precisa indicazione nel caso in cui si arrivi all’indisponibilità di letti in terapia intensiva: «Nessuna rianimazione cardiopolmonare venga attuata per persone con più di 85 anni o che abbiano più di 75 anni e anche almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e sopravvivenza stimata a meno di 24 mesi». Quando invece i letti in terapia intensiva siano disponibili, ma le risorse limitate, i criteri per non essere ammessi alla rianimazione sono più gravi. Tra questi: «Arresto cardiocircolatorio ricorrente, malattia oncologica con aspettativa di vita inferiore a 12 mesi, demenza grave, insufficienza cardiaca di classe NYHA IV, malattia degenerativa allo stadio finale».

I primi ricordi che tornano alla mente sono relativamente recenti. Innanzitutto quelle Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, prodotte all’inizio della pandemia dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), che tanto avevano fatto discutere anche su queste pagine, dando luogo, tra l’altro, a un documento sottoscritto da centinaia di organizzazioni che scrivevano: «In qualità di Associazioni che promuovono e tutelano i Diritti Umani, Civili e Sociali e la qualità di vita delle persone con disabilità e malattie croniche, oncologiche, rare e complesse, chiediamo che vengano messe in atto azioni preventive affinché non ci si ritrovi di fronte alla necessità di scegliere quali vite umane meritino di essere salvate e quali sacrificate».
L’altro ricordo fa riferimento alla drammatica lettera scritta al «New England Journal of Medicine» da un gruppo di medici di Bergamo, che tanta visibilità aveva ottenuto alla fine di marzo. «I pazienti più anziani – avevano denunciato i medici in quell’occasione – non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative».

Di tali questioni si era approfonditamente occupato sulle nostre pagine Giampiero Griffo, Presidente di DPI Italia (Disabled People’s International), organizzazione aderente alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ed è con lui che torniamo a parlare del documento reso pubblico in Svizzera.
«Ci risiamo – esordisce -, il picco di crescita della diffusione della pandemia cresce in tutto il mondo e si ripropongono i quesiti posti all’inizio di marzo dalla SIIARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), nelle sue Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili: se le risorse di posti letto e di macchinari sono limitate, se si dovesse scegliere chi assistere per primi chi si dovrebbe “scartare” nel triage, per usare una terminologia simile a quella di Papa Francesco? I giovani o gli anziani? Le persone “normali” o le persone con limitazioni funzionali gravi?».

Quali criteri per procedere avevano inserito le Raccomandazioni della SIAARTI?
«Le probabilità di sopravvivenza, le aspettative di vita, le co-morbilità severe, lo status funzionale, con l’ottica della “massimizzazione dei benefìci per il maggior numero di persone”. Leggendo però fra le righe le persone che dovevano essere selezionate ed escluse dagli interventi di cura, esse sarebbero state le persone anziane (probabilità di sopravvivenza, aspettative di vita) e quelle con disabilità (co-morbilità severe, status funzionale, disabilità stessa). Si ragionava cioè per categorie da escludere, assumendo un atteggiamento discriminatorio, condannato ad esempio dal Comitato Sammarinese di Bioetica, con il documento Risposta alla richiesta di parere urgente su aspetti etici legati all’uso della ventilazione assistita in pazienti di ogni età con gravi disabilità in relazione alla pandemia da Covid-19, nonché dalle principali Istituzioni internazionali (ONU, Unione Europea, Consiglio d’Europa), da altri Comitati Nazionali di Bioetica, da Associazioni internazionali e nazionali, quali ad esempio l’IDA (International Disability Alliance) e l’EDF (European Disability Forum)».

Si può dunque dire che il documento prodotto in Svizzera sia “parente stretto” di quello della SIAARTI.
«Ne costituisce certamente una filiazione, all’insegna di un rilancio del triage selettivo in un Paese come quello elvetico, dove la diffusione del coronavirus si sta elevando a picchi drammatici, così come in Italia e in altri Stati Europei. In sostanza, a una domanda che si stanno facendo in tutti gli ospedali del mondo, la Svizzera risponde che “in caso di indisponibilità di letti in terapia intensiva, non va fatta alcuna rianimazione cardiopolmonare” e questo significa non curare le persone, violando il codice deontologico dei medici.
Per quanto riguarda tra l’altro i criteri indicati in caso di letti disponibili in terapia intensiva, ma contemporaneamente di risorse limitate, tra le patologie “che escludono” vi è ad esempio anche la demenza grave. Oltre però a non essere affatto chiaro quale sia il parametro di gravità da utilizzare, quest’ultima non è una co-morbilità a rischio, che crei cioè complicanze nel paziente. Ritengo quindi si sia di fronte a una vera e propria indicazione di eutanasia, una scelta di “scartare” determinate persone, su decisione dei medici e sulla base di criteri non clinici».

Quello attuato in Svizzera sembra dunque il tentativo di far rientrare “dalla finestra” quanto era stato condannato nella primavera scorsa da tutto il mondo…
«Ritornare con pervicacia su queste tematiche mostra che il problema viene affrontato in maniera ancora discriminatoria innanzitutto nei confronti delle persone anziane: perché parlare, infatti, di “ultraottantenni” e “ultrasettantacinquenni”? Perché se una persona di 40 anni ha quelle stesse co-morbilità indicate nei criteri (insufficienza cardiaca, renale ecc.) dev’essere assistita al contrario di una persona anziana?
Sono d’accordo: credo sia importante denunciare questo tentativo di far rientrare “dalla finestra” quello che era stato condannato da tutto il mondo. La tutela della salute delle persone, infatti, è un diritto umano e non può essere accettabile selezionare le persone stesse su criteri non clinici».

Fonte: Superando.it

05/11/2020